Josef Mengele: l’angelo della morte di Auschwitz

Segnalo un solo esempio delle tante crudeltà e follie condotte nei lager , scritto da Giulia Caffaro nel 2007. (1)
 .....Al primo contatto […] siamo stati colpiti nel constatare che i medici tedeschi agivano tutti allo stesso modo con perfetto disprezzo della vita umana. Essi consideravano i deportati non come uomini, ma unicamente come ‘materiale umano’ […]. Essi facevano di tutto per farli lavorare più di quanto potessero resistere e li uccidevano con i sistemi più brutali, per sostituirli con altri, quando il rendimento era scarso[1].
Queste sono le parole del dottor Lettich, arrivato ad Auschwitz nell’inverno del 1943 insieme con altri medici che collaboravano con le menti malvagie dei kapò nei terribili esperimenti scientifici.
L’ideatore, la macchina di sterminio, era Josef Mengele, nato il 16 marzo 1911 a Günzburg sulle rive del Danubio. Suo padre era il proprietario di una fabbrica di utensili agricoli che gli permetteva di garantire alla propria famiglia condizioni più che agiate. La brama di studi di Josef lo portò tuttavia ad abbandonare la città natale per trasferirsi a Monaco: era il gennaio del 1930.


In quegli anni Mengele si entusiasmò per i discorsi di Adolf Hitler e iniziò a leggere assiduamente le opere di Rosenberg sul nazionalsocialismo. Si trasferì poi a Francoforte, dove ricevette l’incarico di elaborare tesi ed esperimenti sul tema della biologia ereditaria, che tanto assillava i medici nazisti. Proprio in questa città egli conobbe Otmar von Verschuer, maestro e collega nell’appassionato studio dei gemelli, sui quali Mengele concentrò la maggior parte dei suoi esperimenti nei campi di Auschwitz e Birkenau.
Allo scoppio della guerra, il 1° settembre del 1939, Mengele si offrì volontario per il fronte orientale poi, ferito dai nemici sovietici, nel 1942 tornò alla capitale e chiuse definitivamente il capitolo dei combattimenti.
Fu quello il momento in cui ristabilì i contatti con il prof. von Verschuer, divenuto nel frattempo direttore del dipartimento di antropologia e genetica del Kaiser Wilhelm Institut. I due medici capirono ben presto che i campi di concentramento stavano diventando “una miniera di risorse umane”: migliaia di deportati vi giungevano ogni giorno e tra questi c’erano sicuramente cavie perfette per lo studio della razza ebraica.
Mengele decise di accettare la proposta di von Verschuer di seguirlo nel campo di Auschwitz, punto di partenza per il vortice di orrori che hanno contraddistinto personalità come quelle dell’ “angelo nero”.
Mengele si occupava dei suoi prigionieri a 360 gradi, dalle selezioni dei nuovi arrivati al loro stato di salute, con la piena facoltà di decretarne la vita o la morte. Il potere che deteneva portò il medico a essere circondato da un’aura di mistero e di terrore; la consapevolezza di ciò gli dava una sensazione elettrizzante che lo portava a continui sbalzi di umore, come racconta Miklòs Nyiszli: «[…] A volte si sentiva particolarmente ben disposto verso gli altri ed in quelle occasioni manifestava sentimenti umani»[2]. Lo testimonia un episodio avvenuto sulla rampa di selezione del campo: accortosi di una giovane e bella ebrea, che disperandosi voleva raggiungere il “gruppo di sinistra”, dove c’era la madre, la rimproverò duramente e con un cenno le ordinò di spostarsi nel “gruppo di destra”. Poche ore dopo ella capì che Mengele le aveva salvato la vita. Attenzione, però: scene come quella descritta erano più uniche che rare; infatti il dottore non si lasciava impietosire molto spesso e di fronte alle suppliche di un povero orfanello, ad esempio, rispose: «Al gas! In ogni caso, deve morire»[3].
È importante ricordare che nel campo Mengele non era l’unico medico, anzi, forse non poteva neanche essere chiamato così; egli era il supervisore, colui che controllava assiduamente l’operato dei medici reclutati tra le file dei deportati. Detestava essere ingannato e per questo motivo le sue “visite” erano diventate un’ossessione. Ai medici era solo permesso effettuare piccoli interventi chirurgici senza anestesia o posticci bendaggi di carta, che alleviavano ben poco le sofferenze della schiera di “morti-vivi” che si presentava negli ambulatori.
[…] Il primario spinse via senza alcun riguardo il giovane medico che tentava di pulire accuratamente le piaghe piene di pus di un detenuto ungherese, […] ormai era sopravvenuta l’infezione che presto sarebbe passata prima ai muscoli e poi alle ossa. Un violento colpo di stivale scaraventò a qualche metro il ferito, che si abbatté gemendo sull’impiantito[4].
Quale fosse, tuttavia, la passione di Mengele era evidente: i gemelli. Il dottor Nyiszli – deportato ad Auschwitz - era solito trovare sul tavolo anatomico due gemelli zingari e a fianco, su un tavolino, la solita scheda: “autopsia”, “segni particolari”, “anomalie riscontrate”; semplici parole, che ogni volta facevano inorridire il povero operante. Un giorno, Nyiszli
[…] pratica la sezione longitudinale del primo bambino, […] apre il pericardio, poi asporta il cuore e lo lava sotto acqua corrente. Niente di abnorme. Solo una piccola macchiolina rosso pallida in corrispondenza del ventricolo sinistro… [5]
E così capisce come venivano uccisi quei bambini: con un’iniezione di cloroformio nel cuore, il sangue si coagula, blocca le valvole atrio-ventricolari e il soggetto muore immediatamente. Un brivido scosse i nervi di Nyiszli. Una scoperta simile era davvero rischiosa, ma egli non poteva fare cenno di ciò che aveva visto; il “materiale” e le cartelle cliniche dovevano essere inviati direttamente a Berlino. «Per la spedizione bisognava servirsi della scritta – materiale militare- urgente».
I gemelli dovevano essere curati e alimentati allo stesso modo, dovevano morire in buone condizioni e soprattutto nello stesso istante. Mengele passava ore e ore a scrutare come un forsennato ogni parte del corpo dei gemelli, sperando di svelare il segreto per la moltiplicazione della razza. «Ogni madre ariana, con un parto gemellare, potrà fornire un individuo in più alla razza la cui vocazione era quella di dominare le altre»[6].
I gemelli, però, non erano l’unico interesse del “dottor morte”. Egli trovava particolarmente “allettanti” i nani e gli zingari affetti da una malattia della pelle, il noma. Esso era una specie di tumore del viso che gradatamente lacerava i tessuti fino a lasciare completamente scoperte le membra della persona affetta. Forse casi del genere non si sarebbero verificati in condizioni normali, ma ad Auschwitz c’erano le condizioni ideali per l’evolversi di tali malattie. Mengele prelevava campioni di tessuto malato dalla bocca e dalle guance dei “pazienti” e riscontrava con ammirazione numerose varietà di batteri, come per esempio gli streptococchi anaerobi. Dopo aver effettuato tutti gli esami necessari concedeva all’individuo la morte: «Di essi non rimane ogni giorno che un mucchietto di ceneri argentee nella sala del crematorio»[7].
Josef Mengele si dedicò anche a una serie di esperimenti sulla tubercolosi e questa volta le sue vittime furono dei bambini, tristemente passati alla storia come “i 20 bambini di Bullenhuser Damm”. Egli selezionò tra i piccoli ebrei del campo di sterminio di Auschwitz Birkenau dieci maschi e dieci femmine, che successivamente furono trasportati a Neuengamme, come cavie umane per osservare gli effetti della tbc.
«Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti…»[8], disse il dottor morte una gelida mattina di novembre del 1944; dalla baracca 11 del campo di Birkenau partì una fila di bimbi che inconsciamente aveva decretato la propria triste fine. Una volta giunti al campo troveranno ad aspettarli il dottor Kurt Heissmeyer, incaricato da Mengele di giungere a delle conclusioni importanti su quella malattia.
Heissmeyer fa incidere la pelle sul petto dei bambini, sotto l’ascella destra, con tagli a X, lunghi da tre a quattro centimetri, poi introduce con una spatola i bacilli della tubercolosi e infine copre le incisioni con un cerotto[9].
In questo modo i bambini contraggono la malattia nello stadio più avanzato e nel giro di qualche giorno presentano sintomi molto evidenti.
A questo punto potremmo chiederci perché era così necessario per questi medici che i bambini contraessero la tbc: la risposta è una sola, dovevano raccogliere anticorpi e preparare il vaccino, servivano delle cavie che non opponessero resistenza e chi meglio di un bambino poteva esserlo?
Ad uno ad uno i venti bambini vengono fatti coricare sul letto operatorio e con un’incisione. Heissmeyer asporta loro le ghiandole linfatiche sotto le ascelle. Ogni intervento dura circa un quarto d’ora. Tutto andrebbe per il verso giusto, se solo al medico capo di Neuenmgamme non fosse mai giunta questa notizia: «C’è un ordine di esecuzione da Berlino: devi eliminare i bambini con il gas o con il veleno»[10]. I bambini vengono immediatamente caricati su un camion diretto ad Amburgo, alla scuola di Bullenhuser Damm, all’epoca usata come luogo di detenzione.
Un’ora prima di mezzanotte cominciò il massacro: i piccoli individui furono svestiti, venne somministrato loro un potentissimo sonnifero e poi furono impiccati, lì in una scuola, «come quadri alla parete». E così dei venti bambini del dottor morte non rimaneva nulla, anzi qualcosa sì: il ricordo.
In quel mondo di follia, ove la vita umana non aveva più alcun valore, anche le ipotesi più pazze sembravano degne di verifica: in mezzo ai criminali la scienza stessa delirava[11].
L’interruzione del programma di ricerche di Mengele e di von Verschuer era uno dei tanti evidenti segnali della imminente sconfitta della Germania. I campi di concentramento come quello di Auschwitz dovevano essere “ripuliti” dei loro orrori e i responsabili, qualora fosse stato possibile, dovevano fuggire.
Riguardo alla sorte di Mengele, sono state date versioni diverse e, ancora oggi, nessuno sa quale sia la più veritiera. Nel 1949 scappò in Sudamerica, prima in Argentina, poi in Paraguay e infine in Brasile nel 1960. Nonostante i vari tentativi da parte dei servizi segreti di scovare quel personaggio diabolico, Mengele riuscì a vivere per oltre 35 anni sotto falso nome. Solo dieci anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1979 a Bertioga, un esame del DNA rivelò l’identità di quel corpo che sembrava quello di un uomo qualunque.
  Pinerolo, aprile 2007                                                 Giulia Caffaro
Bibliografia
Luciano STERPELLONE, Le cavie dei lager, Milano, Mursia, 1978;
I 20 bambini di Bullenhuser Damm, a cura di Maria Pia BERNICCHIA, Milano, PROEDI Editore, 2005;
Philippe AZIZ, I medici dei lager, Ginevra, Edizioni Ferni, 1975;
Robert J.LIFTON, I medici nazisti. La psicologia del genocidio, Milano, Rizzoli, 2003;
Siti internet (consultati nell’aprile 2007):



[1] Philippe AZIZ, I medici dei lager, Ginevra, Edizioni Ferni, 1975, p. 59.
[2] Philippe AZIZ, I medici dei lager, Ginevra, Edizioni Ferni, 1975, p. 89.
[3] Ivi, p. 89.
[4] Ivi, pp. 90-91.
[5] Luciano STERPELLONE, Le cavie dei lager, Milano, Gruppo Mursia, 1978, p. 185.
[6] Ivi, p. 184-185
[7] Ivi, p. 189.
[8] I 20 bambini di Bullenhuser Damm, a cura di Maria Pia BERNICCHIA, Milano, PROEDI Editore, 2005, p. 50.
[9] Ivi, p. 55.
[10] Cfr. Prozess Neuengamme, Band III, S.346.
[11] Philippe AZIZ, I medici dei lager, Ginevra, Edizioni Ferni, 1975, p. 147.

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